Rappresentati al teatro dei sassi di Montecelio mercoledì 23 settembre alle ore 20,30

Euripide o Sofocle avevano proprio bisogno di una formattazione perché la tragedia di Elettra fosse compresa dal pubblico tedesco? Non potevamo riviverla nella scarna proposizione del classico? Perché riproporlo oggi nella versione di Hugo Von Hoffmansthal?

Sono le domande a cui risponderà Sergio Fedeli, traduttore e organizzatore dell’evento al teatro dei sassi di mercoledì 23 settembre.

Prima deve rispondere la rappresentazione. Attrici e attori dovranno ridare il senso di quel pathos rivissuto dal letterato tedesco perché arrivi a noi, oggi.

Hugo von Hoffmansthal ha il merito di aver utilizzato per primo l’epos dei miti della tragedia antica per dare voce alla forza vitale che si libera da regole delle leggi morali. Prima di Sigmund Freud ha letto in quell’epos il senso dell’ethos.

La scena si ambienta in un clima di sofferenza claustrale dove ancora si vive per la provocata morte di Agamennone. Ad averlo ucciso è Clitennestra, moglie di Agamennone. Ma ad aiutarla è stato Ogisto, amante di Clitennestra. L’ambiente degli Atridi era già molto pesante, ha pesato lungo tutte le pagine dell’Iliade. Ma quasi a vendetta sembra pesare ancora di più il senso di colpa per la morte di Agamennone.

Elettra è la figlia di Agamennone.

(Ed è già questa una iattura dell’epos. I personaggi sembrano non avere una definizione propria, una vita, una fisionomia esistenziale, senza Agamennone, il mortum).

Pare infatti proprio Elettra a viversi la colpa della sua morte. Vive di umiliazioni e percosse. La sua è una vita inautentica. A fare la sua parte è il fantasma della madre che, come per Amleto, la incolpa della morte di Agamennone.

La novità nella trattazione di Hofmannsthal consiste quindi proprio nel dare della ragazza un condensato di sofferenze indicibili, perché senza alcun vero spessore di effettiva colpevolezza. Però Elettra rimane colpevole. Il suo torto è la sua stessa sofferenza, l’incapacità di agire. Anche qui è impossibile non fare un parallelo con l’Amleto shakespeariano.

Ma Elettra da vittima diventa in carnefice. Il padre riesce a inviargli l’odio come compagno di esistenza. Si toccano qui le ragioni d’essere dei disturbi isterici che non sono determinati semplicemente dalla fattualità, ma da un inconscio molto fertile. “Meglio essere morti che vivi senza vita”. Il femminino è espresso da Crisotemide – sorella di Elettra, una sorta di alter ego – quando dice che vorrebbe fuggire, essere felice, dare al mondo figli: “io sono una donna e voglio un destino da donna”.

Non sono argomenti che possono coinvolgere Elettra che vive maternità e femminilità come una colpa per responsabilità della madre Clitennestra.

D’altra parte Clitennestra, assassina di Agamennone, pensa a sé. Prega per fugare i fantasmi. Tra questi c’è il senso di colpa per Oreste, il figlio che ha fatto allontanare da palazzo e di cui ha perso ogni traccia.

Clitennestra ha perso memoria dell’omicidio verso Agamennone ed è Elettra a porsi come terapeuta in un dialogo a botta e risposta.

Quel che è successo per Clitennestra non deve determinare l’attuale in senso univoco. Quel che è stato può essere controvertito negli effetti conseguenziali. La lunga battaglia per recuperare l’integrità dell’ego deve essere vicente attraverso un’azione di volontà. Ed è qui la frase caratterizzante: “prima ci fu un prima, dopo ci fu un dopo, ciò che è successo nel mezzo l’ha fatto la scure”.

Elettra è distrutta dal ricordo. Clitennestra animata dalla voglia di ricostruire la sua identità emotiva.

Ma a interrompere il determinarsi dello scontro tra queste due visioni è il caso. Il ritorno di Oreste. Un ritorno non vero. Una falsa notizia. Una notizia che le due donne però prendono per vera. Tanto che Elettra ne è ulteriormente affranta, mentre Clitennestra ne è galvanizzata.

Elettra riprende la scure con la quale è stato commesso l’omicidio del padre ma a controvertire i nefasti esiti è l’effettivo ingresso in scena di Oreste. Non solo annunciato, stavolta. Oreste, dopo il saluto ad Elettra in cui si riconosce come parte dello stesso dramma, uccide Clitennestra ed Egisto. Elettra ottiene la sua vendetta inconfessata, ma ne esce in uno stato di prostrazione assoluto. Questo nella prima versione tragica di Hoffmansthal. Nella seconda riveduta e corretta, la scure brandita per la vendetta diventa invece il segno del perdono.